domenica 25 settembre 2011

riflessioni

Si va sempre di fretta e la nostra vita è un continuo correre. Manca il tempo per pensare e la calma nel pensare, e spesso non si ha il tempo per riflettere su opinioni divergenti e ci si accontenta di essere semplicemente contrari. Il vivere in un mondo dove la fretta la fa da padrone fa sì che lo spirito e l'occhio vengono adattati ad un falso vedere e ad un falso giudicare al punto da farci somigliare a quei viaggiatori  che fanno la conoscenza di paesi e popoli dal treno.

domenica 12 giugno 2011

Pudore e Vergogna

In questo dipinto del Masaccio “Cacciata dal paradiso terrestre”(1426-28) si vede l’incedere straziante e doloroso  di Adamo ed Eva nudi.
Scoprono di essere nudi solo dopo aver mangiato dell'albero della conoscenza del bene e del male; e solo dopo aver violato il comandamento divino che vietava di mangiare da quell'albero.  Non è la nudità  rinascimentale che vediamo in questo dipinto: Eva non è una Venere nuda, il suo corpo è greve e sformato; Adamo non è un Ercole nudo.  Mentre Eva con le mani si copre le parti intime,  Adamo  il viso.  La loro è una nudità di vergogna e dolore. L’ombra diventa  protagonista in quanto  metafora del pudore.
   Il cuore dell’affresco è concentrato sulle due teste: quella di Eva è all’indietro, grida la sua angoscia, la bocca sembra una cavità, i suoi occhi sono occhiaie, il tutto richiama alla mente il  teschio quale espressione di morte. La testa di Adamo è ripiegata in avanti e chiusa fra le mani come a voler contenere un urlo.  L'ombra nel dipinto  dà spessore ai corpi, rivela e nasconde, indica la provenienza della luce, lo sguardo di Dio. Il gesto con cui il senso di colpa spinge Adamo a coprirsi, a nascondersi, rappresenta tutto ciò che lo rende, da quel momento,  diverso dall'animale. La vergogna e il pudore diventano aspetti  caratterizzanti dell’uomo.
Come gli oggetti, quando sono esposti alla luce, conservano qualcosa di non visibile, quasi a difendere il diritto a esistere in qualche misura come soggetti, allo stesso modo il senso del pudore si fonda sul non-svelare, inteso non come ciò che si vuole nascondere, ma come ciò che non si può ridurre a qualcosa che è o non è.
Il senso di  pudore e vergogna che viene rappresentato in quest’opera del Masaccio sembra del tutto estraneo ai nostri tempi, l'ideale della trasparenza, della sincerità a tutti i costi è la smania patologica del mondo contemporaneo. Un corpo e una psiche messi a nudo completamente rispondono all'ideale della modernità, in cui si deve sapere tutto, mostrare tutto. Tutti devono vedere tutti gli altri nella loro nudità trasparente. La pretesa di avere qualcosa di proprio, sia poi questo spirituale, ideale o materiale, suscita sospetti di ogni genere.
 La privacy è divenuta oggetto di tutela giuridica solo nell'epoca in cui non solo non esiste di fatto più alcuna
privacy, ma il rivendicarla è divenuto, equivocamente, un comportamento riprovevole, un segno di insincerità e una minaccia potenziale.
I  soggetti esposti alla luce accecante del mito contemporaneo, la trasparenza assoluta,  diventano dei quasi-oggetti. La quasi-oggettualità è la dimensione in cui lo spazio del segreto e il margine di manovra della trascendenza del soggetto è ridotto al minimo. L'individuo è così indotto a non avere più nulla di proprio, a non vedere nulla di sé che anche gli altri non vedano, non avendo nulla da celare viene meno anche il senso della vergogna. Tutto può essere perdonato se esposto in una confessione che non tralascia nulla. Infatti ci si vergogna dell'inconfessato o dell'inconfessabile, non di ciò che si è confessato interamente.  
Abbattuta  la barriera,   che consente di distinguere l’interiorità dall’esteriorità, viene a mancare  quella parte discreta, singolare, privata,  intima di ciascuno di noi che ci da  spessore, che ci consente di non essere diafani. Il nostro intimo è ciò che si nega all’estraneo per concederlo a chi si vuol fare entrare nel proprio segreto profondo, allora il pudore, che difende la nostra intimità, difende anche la nostra libertà. E difende quel nucleo dove la nostra identità personale decide che tipo di relazione instaurare con l’altro. Il pudore, non è una faccenda di vesti, ma una sorta di vigilanza, dove si decide il grado di apertura e di chiusura verso l’altro. Si può essere nudi senza nulla concedere, senza aprire all’altro neppure una fessura della propria anima. La nudità del nostro corpo non dice ancora nulla della nostra disponibilità all’altro. Siccome agli altri siamo irrimediabilmente esposti  e, come ci ricorda Sarte, “dallo sguardo degli altri siamo immediatamente oggettivati”, il pudore è un tentativo di mantenere la propria soggettività. E qui l’intimità si coniuga con la discrezione, nel senso che, se essere in intimità con un altro significa essere irrimediabilmente nelle mani dell’altro, nell’intimità occorre essere discreti e non svelare per intero il proprio intimo, affinché non si dissolva quel mistero che, se interamente svelato, estingue non solo la fonte della fascinazione, ma anche il recinto della nostra identità, che a questo punto non è più disponibile neppure per noi.
Ma oggi, in nome della globalizzazione, si vuole la pubblicizzazione dell’intimo, perché in una società consumistica, dove  anche le persone rischiano di essere merci, i giovani hanno la sensazione di esistere solo se si mettono in mostra. In questo modo molti giovani scambiano la loro identità con la pubblicità dell’immagine e, così facendo, si producono in quella metamorfosi dell’individuo che non cerca più se stesso, ma la pubblicità che lo costruisce. Per effetto di questa esposizione il pudore non è più  il tracciato di un limite. Per esserci bisogna dunque apparire. E chi non ha nulla da mettere in mostra, non una merce, non un corpo, non un’abilità, non un messaggio, pur di apparire e uscire dall’anonimato mette in mostra la propria interiorità, dove è custodita quella riserva di sensazioni, sentimenti, significati  “propri” che resistono all’omologazione, che, nella nostra società di massa, è ciò a cui il potere tende per una più comoda gestione degli individui.
Il Grande fratello e l’isola dei famosi sono stati creati sostanzialmente per questo.  Eppure queste trasmissioni, che dobbiamo considerare più pornografiche della pornografia propriamente detta, perché denudare la propria anima è peggio che denudare il proprio corpo, si alimentano dei cascami della cultura religiosa che, per quanto laicizzata, ancora si nutre della sua simbologia. E non si fatica a cogliere nell’occhio del grande fratello la trasposizione dell’occhio di Dio.
Il grande fratello e trasmissioni simili offrono a tutti i fruitori della televisione e di internet la possibilità di scrutare l’anima altrui, perché è quella che viene fuori dopo alcuni giorni, quando, disimpegnati da qualsiasi attività, i protagonisti non avranno altro da fare che sfoderare davanti a milioni di spettatori la loro anima nei suoi aspetti  resi patologici dall’inattività.
Il risultato di queste trasmissioni ha un fine politico, perché la pubblicizzazione del privato è l’arma più efficace impiegata nelle  società conformiste per togliere agli individui il loro tratto discreto, singolare, intimo. Allo scopo vengono solitamente impegnati i mezzi di comunicazione che, dalla televisione ai giornali, irrompono con indiscrezione nella parte discreta dell’individuo, per ottenere, non solo attraverso test, questionari, campionature, statistiche, ma anche e soprattutto con intime confessioni, emozioni in diretta, storie d’amore, trivellazioni di vite private, che sia lo stesso individuo a consegnare la sua interiorità, la sua parte più intima, rendendo pubblici i suoi sentimenti, le sue emozioni, secondo quei tracciati di spudoratezza che vengono acclamati  come espressioni di sincerità, perché in fondo: “non si ha nulla da nascondere, nulla di cui vergognarsi”.
Questi tracciati segreti dell’anima, in cui ciascuno dovrebbe riconoscere le radici profonde di se stesso, una volta immessi senza pudore nel circuito della pubblicizzazione, quando non addirittura in quello della pubblicità, non sono più proprietà privata ma comune. E questo sia in ordine alla qualità del vissuto, sia in ordine al modo di viverlo, perché il pudore, prima di una faccenda di mutande che uno può cavarsi o infilarsi quando vuole, è una faccenda d’anima che una volta perso, non esiste semplicemente più.
Quanti sono interessati a che l’individuo non abbia più segreti  e al limite neppure più interiorità alimentano il proliferare di queste trasmissioni che veicolano la persuasione che la spudoratezza è una virtù: la virtù della sincerità. Le istanze del conformismo e dell’omologazione lavorano per portare alla luce ogni segreto, per rendere visibile ciascuno a ciascuno. Di qui la necessità di rivendicare i diritti del pudore per sottrarre l’individuo a quei processi di omologazione in cui ciascuno di noi rischia di perdere il proprio nome.
Il pudore quindi non è una virtù in senso canonico, ma rappresenta  uno stato di allarme, trasmette la percezione di un transito, di un confine, di una linea d'ombra, nel momento stesso in cui si va verso un eccesso.
il pudore è un sentimento ambivalente che oscilla tra la preservazione della propria identità e la paura di aprirsi al mondo dell’altro, paura spesso legata alla sfera sessuale, per cui diventa uno strumento di misurazione dei comportamenti sessuali
(nel romanzo “Il Gattopardo” di G. Tomasi di Lampedusa, il principe Fabrizio di Salina, confida al suo confessore che ha avuto cinque figli, senza aver visto mai sua moglie nuda) che oggi sono vissuti come il residuato di una mentalità arcaica. La cosiddetta rivoluzione sessuale ha messo sotto processo questo sentimento, ritenendolo il maggior responsabile delle più gravi forme di alienazione della vita personale e sociale. Ma questa visione, per quanto storicamente dominante, non corrisponde alla vera natura del pudore, il quale ha il suo significato nella natura stessa dell’uomo e il suo obiettivo nella difesa dell’unicità e irripetibilità della persona, la quale è condizione essenziale per lo sviluppo di autentiche relazioni interpersonali, la cui verità è data dal rispetto della propria e dell’altrui diversità.
Il rifiuto del pudore comporta che l’uomo si riduce a  un prodotto della società. I motivi di questa reificazione vanno rinvenuti nella omologazione culturale indotta dai mass media, come già detto, e dall’uso ideologico delle scienze umane (la pretesa di spiegare, in termini totali, attraverso di esse, l’essere e l’agire dell’uomo).  E’ una nuova forma di obiettivazione che vanifica l’intimità personale e distrugge alla radice la possibilità di comunicazione interumana.
L’incomunicabilità, che caratterizza l’attuale fase sociale, è anche il frutto di questa tendenza. Infatti la comunicazione può realizzarsi solo dove esistono soggetti che hanno una precisa identità e interagiscono tra loro in reciprocità.  In altre parole, dove si attivano dei processi di comprensione, i quali comportano  il rispetto del mondo interiore delle persone, cioè: no alla riduzione del soggetto a oggetto, no alla assolutizzazione del soggetto. Il primo aspetto chiede l’assoluto rispetto della sfera intima del soggetto che non può venire espropriata. Il secondo aspetto chiede la costante apertura all’altro, come condizione essenziale di maturazione della propria autocoscienza e autorealizzazione (non posso realizzarmi se non nella relazione con gli altri). Quindi sono necessari sia il confronto sia lo scambio e ciò comporta “coinvolgimento” e “distanza”. Il “coinvolgimento” fa aprire se stessi all’altro e ci fa accogliere la rivelazione che l’altro ci fa di sé. La “distanza” ci impedisce di violarlo, e di accettarlo per ciò che è, senza volerlo fare simile a noi.
Il pudore è un sentimento che nasce e si sviluppa da questa esigenza: vuole proteggere la propria intimità e l’intimità altrui.
Il pudore nasce dalla consapevolezza che solo dove esistono identità ben definite la relazione si fa autentica, perché la relazione umana è unità nella e della diversità, esclude ogni forma di omologazione (dominio che rende servi) e apre l’orizzonte di un’alterità assoluta.
Il pudore riguarda tutte le relazioni che l’uomo vive. Prima di essere atti concreti è un modo di essere di ciascuno di noi: coscienza di sé e coscienza – rispetto dell’altro.
Per viverlo occorre una radicale autenticità (trasparenza) verso se stessi e insieme una grande disponibilità (accoglienza che mantiene il rispetto della differenza) verso l’altro.
E’ all’interno di questo contesto che vanno inserite le dinamiche dell’affettività, dell’eros, della corporeità.  

sabato 14 maggio 2011

Andromaca


Andromaca è uno dei personaggi più affascinanti della mitologia greca, i tragici eventi di una guerra, che la privano degli affetti più cari, fanno di lei il simbolo di tutti gli esiliati.
Andromaca rappresenta la donna nei suoi aspetti più tragici,  è  non solo una delle prime grandi figure di  sposa dolorosa, ma anche  di donna separata dai suoi  cari, umiliata, strappata alla sua casa, alle sue origini, ridotta alla sorte di un qualsiasi bottino di guerra spartito brutalmente tra i vincitori.
 La figura di Andromaca compare per la prima volta nel VI libro dell'Iliade   mentre scongiura  inutilmente il marito Ettore di non   battersi con Achille, lo vedrà morire atrocemente   in quell’ ultimo duello sotto le mura della città. E’ l’inizio dei suoi dolori.
 Caduta Troia, le viene strappato dalle braccia il figlio Astianatte per essere lanciato dalle mura della città da Neottolemo. Preda di guerra diventa schiava e concubina del re dell’Epiro.

Andromaca racchiude nella sua figura l’impotenza e la sofferenza di una donna, da personaggio letterario diventa simbolo   della donna separata dai suoi cari, umiliata, strappata alla sua casa, alle sue origini, ridotta alla sorte di un qualsiasi bottino di guerra.
E tornerà ad abitare la poesia - da Virgilio a Racine, per fare soltanto qualche nome. Ma è forse Baudelaire il poeta che grida il suo nome più forte e più alto di tutti, in una meravigliosa poesia di "Les fleurs du mal" intitolata "Le Cygne" - Il cigno.


Baudelaire scrive Le Cygne nei giorni in cui il centro di Parigi è sconvolto dalle grandi demolizioni di molti vecchi quartieri popolari per far posto al nuovo sistema centralizzato dei grandi boulevards. «La vecchia Parigi è scomparsa (la forma di una città / cambia più in fretta, purtroppo, del cuore di un mortale)»... Ma in questo scenario sconvolto la figura di Andromaca in esilio folgora l'immaginazione del poeta. «Andromaque, je pense à vous!». «È a te che penso, Andromaca!» così incomincia Le Cygne - mentre il poeta ha davanti agli occhi un povero cigno scappato dalla sua gabbia, e intento a cercare disperatamente un corso d' acqua degno del suo corpo maestoso tra gli sporchi rigagnoli che scorrono tra le rovine delle demolizioni. La condizione di Andromaca in esilio, lungo la riva di fiumi sconosciuti, è paragonata a quella del nobile animale ridotto in cattivo stato da un destino avverso  - «Tesa la testa avida sul collo convulso / Come se stesse lanciando rimproveri a Dio».

 La seconda parte della poesia inizia con la descrizione di Parigi che viene stravolta in nome dell’efficienza: «Parigi cambia - non è cambiato niente nella mia melanconia»... E, alle spalle di quella coppia simbolica formata da Andromaca in esilio, ridotta a preda di guerra, e dal cigno nel fango, viene evocato, tutto un corteo di creature umiliate e offese. « penso a chi   ha perduto ciò che non ritorna mai! mai! A coloro, che il pianto disseta  

e che il Dolore allatta come una lupa buona!...».

Ultima figura che si affianca ad Andromaca è quella di un'africana immigrata a Parigi, il suo presente era rimpiangere il passato,il mito e la storia si sono ricomposti in lei: «Penso alla donna nera, dimagrita e tisica,

che strascica i piedi  nel fango, gli occhi stravolti, che cercano le palme assenti dell’Africa superba dietro ad un’ immensa muraglia di foschia». Il circolo è chiuso. Il Cigno-Andromaca-l' africana a Parigi. La sconfitta, la perdita, la decadenza, il rimpianto. E tutto questo non tanto come condizione occasionale, riportabile a vicende particolari, tutto questo come una specie di condizione di fondo per le grandi masse che vivono in una metropoli, lacerata da contraddizioni inconciliabili tra le pretese spietate dello sviluppo industriale e le fragili esigenze di masse sempre più grandi di persone che si vedono coinvolte, costrette da un ambiente completamente nuovo e, per molti aspetti, ostile, duro, violento.



Il cigno


 A Victor Hugo


I


È a te che penso, Andromaca! Quel ruscello sottile,
 misero opaco specchio dove un tempo rifulse,
 immensa, la maestà del tuo dolore vedovile,
 quel falso Simoenta, gonfiato dal tuo pianto,
 ha fecondato a un tratto la mia fertile memoria,
mentre attraversavo il nuovo Carrousel.
 Muore la vecchia Parigi (ahimè, il volto d’una città
muta più rapido  d’un cuore mortale);
solo nel ricordo vedo quel campo di baracche,
mucchi di capitelli sbozzati e colonnine,
gran blocchi che le pozze inverdiscono, erbacce
e confuse anticaglie luccicanti in vetrine.
Là, un tempo sorgeva un serraglio;
è là che vidi, un giorno, sotto un cielo diafano
e gelido, nell’ora in cui il Lavoro è al risveglio
e lo spazino  alza nell’aria un cupo uragano,
un cigno che, scappato dalla sua voliera,
raspando con i piedi palmati sul selciato,
trascinava piume bianche sulla scabra terra.
La bestia a becco aperto in un rivo seccato
bagnava nervosamente le ali nella polvere,
dicendo in cuor suo, colmo del bel lago natale:
“Acqua, quando cadrai? Quando tuonerai, folgore?”
Rivedo quell’infelice, mito fatale e strano,
come l’uomo d’Ovidio,tendere la testa  sopra il contorto collo
verso il cielo sarcastico, crudelmente azzurro,
come se rivolgesse dei rimproveri a Dio.


II


Parigi cambia! Ma nella mia malinconia
niente muta! Impalcature, massi, nuovi edifici,
vecchi sobborghi, tutto  per me diventa allegoria,
e i miei cari ricordi  sono più duri delle selci.
Così, davanti al Louvre, un’immagine m'opprime:
penso al mio grande cigno, e ai suoi folli gesti,
come ad un esiliato, ridicolo e sublime
e roso senza tregua da un desiderio! E penso te,
Andromaca!  dal braccio di un grande sposo
caduta, vile bestia, al fiero Pirro in mano,
china in estasi sopra un sepolcro vuoto,
vedova d’Ettore, ahimè! E d'Eleno consorte!
Penso alla donna nera, dimagrita e tisica,
che strascica i piedi  nel fango, gli occhi stravolti, che cercano
le palme assenti dell’Africa superba
dietro ad un’ immensa muraglia di foschia;
penso a chi   ha perduto ciò che non ritorna
mai! mai! A coloro, che il pianto disseta  
e che il Dolore allatta come una lupa buona!
Penso agli orfanelli magri e, come fiori, appassiti!
Così nella foresta ove la mente si esula
il corno risuona alto il richiamo di un Ricordo antico!
E penso ai marinai su un'isola obliati,
ai prigionieri, ai vinti! … e ad altri, ad altri ancora!
Charles Baudelaire






domenica 1 maggio 2011

L'urlo

L’atto fondativo delle prime comunità è stato probabilmente Il grido.Il grido segna l’inizio della vita sociale dell’uomo. Emanuele Severino nel suo libro “Il parricidio mancato” a proposito del grido scrive: “il grido sta all’inizio della vita dell’uomo sulla terra. Il grido di caccia,di guerra, d’amore, di terrore, di gioia, i dolore, di morte. ... L’uomo si raccoglie attorno al proprio grido, in assenza degli eventi che lo hanno provocato.  Al  grido sono legati gli aspetti decisivi dell’esistenza e nella rievocazione del grido le più antiche comunità umane non solo scorgono le trame che le formano, ma annodano stabilmente i fili della trama, cioè si stabiliscono e confermano nel loro essere comunità umane”.
Edvard Munch nella sua opera  “L’urlo” rievoca  momenti di terrore e angoscia vissuti in prima persona: «Passeggiavo con due amici quando il sole tramontò. Il cielo divenne all’improvviso di un rosso sangue. Io mi  fermai, mi appoggiai stremato a un parapetto. Il fiordo di un nero cupo, bluastro, e la città erano inondati di sangue e devastati dalle fiamme. I miei amici proseguirono il cammino, mentre io, tremando ancora per l’angoscia, sentii che un grido senza fine attraversava la natura».
Il grido di Gesù: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” esprime non solo la profondità e l’intensità della sua sofferenza ma anche il sentimento di desolazione e di abbandono.  Quel grido di dolore e di abbandono di Gesù è il grido che ogni uomo dovrebbe accogliere e farlo proprio per riconoscerlo nei drammi di questo mondo, nelle povertà materiali e spirituali, nelle sofferenze più atroci, nel peccato, negli orfani abbandonati, in tutte quelle persone separate o divorziate, in quei genitori che hanno perso i figli, in quelle persone che hanno perso il fratello o l'amico, la moglie o marito.

giovedì 28 aprile 2011

un libro da leggere

Il racconto dei racconti
di Giambattista Basile( 1575-1632)

Il titolo originale è "Lo cunto de li cunti overo lo trattenimento de' peccerille".
E' una raccolta di fiabe popolari che si narravano a Napoli ed è stato  scritto in un antico e non facile dialetto napoletano. Sono cinquanta fiabe divise in cinque giornate. 
La raccolta è stata tradotta in italiano per la prima volta dal Benedetto Croce, oggi si trova in commercio la traduzione di Ruggero Guarini.
Il cunto de li cunti è il più antico e il più artistico di tutti i libri di fiabe popolari ma, non sono, se non in pochi casi, fiabe per bambini. Giambattista Basile è scrittore prevalentemente per adulti. Sono le persone colte a leggerlo e ad apprezzarlo come merita.  Ci sono certamente dei racconti, come La fiaba dell’orco, Peruonto, La pulce, La cerva fatata, La gatta cenerentola, che  possono benissimo essere letti e gustati dai piccoli lettori; ma la maggior parte delle fiabe, per la vitalità della scrittura e per l’ambiguità dei significati possono essere intesi e apprezzati soltanto da chi ha dimestichezza con i grandi narratori.
Strano però a dirsi, questo libro importante e misconosciuto in Italia venne subito apprezzato, nonostante le difficoltà del dialetto, e tradotto in Germania, in Francia, in Inghilterra.Ecco il giudizio di Grimm (i brani sono riportati da Croce nel suo saggio del 1911: 
<<basile ha raccontato secondo il gusto di un popolo vivace, spiritoso e scherzoso, con continue allusioni a usi e costumi, e anche alla storia antica e alla mitologia, la cui conoscenza, specialmente tra gl’italiani, è abbastanza diffusa; sicchè il suo stile è proprio l’antitesi di quello calmo e semplice delle fiabe tedesche.
E’ straordinariamente ricco di espressioni metaforiche, proverbiali e spiritose, delle quali ha grande provvista e che per lo più sono calzantissime: non di rado la parola, secondo il costume del paese, è libera, sfacciata, senza veli … tuttavia, non si può dire di lui, come dello Straparola, che sia immorale.
… Quando vi si acquisti una certa familiarità, la forma davvero attraente di queste fiabe reca diletto grande. … In graziose e svariate immagini si ritrae il rumorio e mormorio dei ruscelli. In profonda oscurità delle selve, il cantare degli uccelli in mezzo alla pompa orientale, si percepiscono le più lievi voci della natura. Il discorso corre ricco di paragoni, giuochi di parole, proverbi; … e anche qui, come nelle schiette fiabe di tutti i popoli, quando la narrazione giunge al punto importante, compaiono rime semplici ma inimitabili, che fermano l’attenzione del narratore
e insieme dell’uditore>>
.

mercoledì 27 aprile 2011

martedì 19 aprile 2011

massima

Nessuno desidera ciò che ha, ma solo ciò che non ha. Il nulla è l'anima del desiderio.

sabato 16 aprile 2011

Il sentimento

Il sentimento

Il sentimento non è languore, non è malcelata malinconia, non è struggimento dell’anima, non è sconsolato abbandono. Il sentimento è forza. Quella forza che riconosciamo al fondo di ogni decisione quando, dopo aver analizzato tutti i pro e i contro che le argomentazioni razionali dispiegano, si decide, perché in una scelta piuttosto che in un’altra ci si sente a casa. E guai ad imboccare, per convenienza o per debolezza, una scelta che non è la nostra, guai ad essere stranieri nella propria vita.

La forza d’animo, che è poi la forza del sentimento, ci difende da questa estraneità, ci fa sentire a casa, presso di noi. Qui è la salute. Una sorta di coincidenza di noi con noi stessi , che ci evita tutti quegli “altrove” della vita che non ci appartengono e che spesso imbocchiamo perché altri, da cui pensiamo dipenda la nostra vita, semplicemente ce lo chiedono, e noi non sappiamo dire di no.

Il desiderio di essere amati ci fa percorrere strade che il nostro sentimento ci fa avvertire come non nostre, e così l’animo si indebolisce e si ripiega su se stesso nell’inutile fatica di compiacere agli altri. Alla fine l’anima si ammala, perché la malattia è una metafora, la metafora della devianza dal sentiero della nostra vita.

Essere se stessi questa è la forza d’animo, è la forza del sentimento. Ma per essere se stessi occorre accettare la propria ombra. Quella parte oscura che quando qualcuno la sfiora, ci fa sentire “punti nel vivo”. Accolta, l’ombra cede la sua forza. Cessa la guerra tra noi e noi stessi e siamo in grado di dire: ”ebbene sì, sono anche questo”. Ed è la pace così raggiunta a darci la forza d’animo capace di guardare in faccia il dolore senza illusorie vie di fuga. “Tutto quello che non mi fa morire mi rende più forte” scrive Nietzsche. Ma allora bisogna attraversare e non evitare le terre seminate di dolore. Quello proprio, quello altrui. Perché il dolore appartiene alla vita allo stesso modo della felicità. Sottrarsi al dolore come inevitabile contrappunto della vita,  come oscurità dello sguardo che non vede via d’uscita ma la cerca, perché sa che il buio della notte non è l’unico colore del cielo, significa correre il rischio di passare il tempo della vita senza sentimento, senza nobiltà, confusi tra piccoli uomini a cui basta, secondo Nietzsche, “una vogliuzza per giorno, una vogliuzza per notte, fermo restando la salute”.  Nulla del coraggio del navigante di  Nietzsche: “Se in me è quella voglia di cercare che spinge le vele verso terre non ancora scoperte, se nel mio piacere è un piacere di navigante: se mai gridai giubilante: “la costa scomparve” – ecco anche la mia ultima catena è caduta – il mare mugghia intorno a me, laggiù lontano splende per me lo spazio e il tempo, orsù! Coraggio! Vecchio cuore”. Il cuore non come languido contraltare alla ragione, ma come sua forza, sua animazione, affinché le idee, ben animate dalle passioni, divengano attive e facciano storia.
liberamente tratto da "L'ospite inquietante" di U. Galimberti

Il Dolore

Riflessioni sul perchè del dolore
Il dolore diventa causa di conoscenza se vissuto in silenzio, in forma mistica, perché, in questo modo si ha la possibilità di guardare nel fondo dell’anima e ritrovare la propria dimensione spirituale.
Il dolore serve ad imprimere nel nostro spirito il ricordo-conoscenza di un fatto.
Il dolore è lacerazione, ferita che lascia una cicatrice pronta a sanguinare nuovamente se si ipotizza il ritorno di una situazione simile a quella che l’ha prodotta.
Il dolore causa un oscuramento totale nel fondo dell’anima, buio, ma non è mai un buio totale, c’è sempre un punto di luce che se fissato lentamente ma inesorabilmente si espande sino a vincere le tenebre.

Il dolore è separazione.
La rottura dell’unità crea la dualità: essere e non essere, bello e brutto, ecc.
A tale riguardo vale la pena ricordare il significato profondo della metafora del Peccato Originale: l’uomo, nutrendosi dei frutti dell’albero della sapienza, accede alla comprensione consapevole («Ed essi si conobbero nudi…»), identificandosi col proprio Io psicologico; e si ritiene altro da Dio, che viene quindi trasformato in ente-altro, se non addirittura idolo da adorare. Questa separazione trova un’importante conferma semantica e concettuale nella parola diavolo: dal greco dia-ballo, separare. Il diavolo: colui che separa e divide l’uomo dalla sua radice spirituale. Il dolore è il prezzo che dobbiamo pagare per questa frattura che si è venuta a creare.
Il dolore può essere vinto tramite la conversione: percorso di ritorno dal molteplice all’Uno.
Il dolore deriva dall’attaccamento.
In questo nostro mondo niente esiste come separato dal resto. La realtà può essere rappresentata da un modello a "rete" tridimensionale, in cui ogni fenomeno contenente e contenuto è in continua e costante relazione con la totalità degli altri fenomeni. Ecco perché «la forma è vacuità, e la vacuità è forma»: perché ogni forma è vuota in quanto definibile e verificantesi solo in relazione ad altre forme. Risulta ovvero determinata da ciò che essa non è.
Il dolore che segna l’esistenza deriva da una non-retta visione della Realtà, dalla disconoscenza della realtà come Uno, e dalla conseguente illusoria, frustrante ricerca di simulacri di sostanzialità e permanenza del e per il nostro Io. Di nuovo: un peccato originale. Un errore iniziale di interpretazione, continuamente rinnovato, e causa di dolore.

Come vincere il dolore.
La via indicata per la liberazione dal dolore dal cristianesimo, ma anche dal Buddismo e da altre religioni, è la via del distacco e della disappropriazione. Quel rifuggire «dal furore dell’incostanza delle cose transitorie».Quel porre in discussione un Io che secoli di cultura ci hanno abituato a considerare come la nostra essenza qualificante, ma che invece non può essere considerato tale. Anzi: proprio il distacco dai vincoli dell’Io definisce e prospetta il cammino di liberazione. Lo scioglierlo nell’infinito oceano dell’Essere-Uno, così come l’onda, una volta formatasi, ritorna nell’indistinto del mare, senza perché e senza tentare in alcun modo di perpetuare la propria transitorietà, che ne definisce l’essenza.

La vita?
La vita è fatta di dolore e di gioia, di cose belle di cose brutte, la si viva con gioia e serenità in attesa che ciò che gli si contrappone giunga. La morte è dolore e fa paura, non può essere altrimenti perché conseguenza di una separazione. E’ la fede in Cristo Risorto la certezza del ritorno all’Uno.

martedì 12 aprile 2011

L'io e l'ego

L'io
Potremmo definire l'io la percezione di sé come soggetto corporeo, mentale, emotivo ed energetico. L'io cioè si pone in rapporto a se stesso tramite la percezione-posizione.
 E' la percezione infatti che dà all'io la misura del suo esitere, ed essendo la percezione un lavoro di rapporti tra interno ed esterno, possiamo affermare che è proprio questo essere a metà tra interno ed esterno che rende l'io dinamico. Dove c'è divario c'è movimento, c'è vita. La separazione tra mondo esterno e mondo interno non viene percepita in modo assoluto, in quanto i sensi sono legati allo stadio materiale-energetico dove c'è ancora bisogno di un qualche discrimine per poter costruire la conoscenza.
Nel porsi contemporaneamente come soggetto e come oggetto di percezioni sensoriali, emotive, mentali energetiche e di autopercezione, l'io assolve varie funzioni.
L'io permette le funzioni biologiche perchè presenta un testimone al loro svolgersi, e anzi fornisce i termini stessi della percezione: senza un ricevente il messaggio in sé e per sè si perde. I sensi avvertono il mondo, trasmettono questo messaggio all'io che, nel momento stesso in cui percepisce il messaggio esterno, avverte anche la propria esistenza, e riponde al messaggio esterno secondo il proprio grado di controllo sul'ego.
La seconda funzione, infatti, è proprio di controllo sulle funzioni dell'ego, in quanto l'emotività e la percezione fisica sono, per ragionamento consequenziale, estensibili a tutti gli esseri umani e pertanto possono essere considerati una valida contropartita ai bisogni dell'ego. Spesso la considerazione che anche gli altri hanno sentimenti e sensibilità esattamente come noi, magari con sfumature diverse ma pur sempre come noi, può essere di valido aiuto nello scegliere comportamenti meno dannosi per il nostro prossimo e, in definitiva, meno lesivi della nostra stessa dignità umana. Grazie a questa operazione censoria dei comportamenti dell'ego, l'io garantisce un adeguato comportamewnto nelle relazioni con l’altro.
 L'io assicura insomma una sorta di punto di partenza per l'assolvimento di compiti di portata superiore, da conoscere e valutare con gli strumenti della volontà.

L'ego.
L'origine della parola è greca, e vuol dire "io". Che tipo di io è l'ego? Certamente rispetto all'io di una funzione statica, centrata esclusivamente su di sé, che si serve degli stimoli esterni, ricevuti dall'io, per affermare la propria priorità assoluta.
Ogni percezione, anche quella di sé, viene sfruttata con il preciso intento di affermare la propria esistenza, che é esistenza limitata, di dolorosa separatezza, di esclusione dal proprio essere più vero.
E' come se l'ego potesse affermarsi mentalmente solo ed esclusivamente a scapito di qualcosa, nell'assenza e nella limitatezza. Dato che l'ego é solo una delle funzioni del nostro essere, l'affermazione dei limiti é l'unica garanzia per l'ego di continuare ad esistere.
Il fatto che tutto ciò passi per la mente e non per i sensi dà la misura di quanto questa funzione assolva compiti limitati e del tutto laterali rispetto all'intera persona: le cose hanno valore solo in quanto riflesso mentale asservito all'esistenza dell'ego, non in quanto cose in sé. Ci si renderà conto facilmente di quanto ciò pregiudichi un corretto rapporto con il mondo, sia conoscitivo sia etico, se non addirittura morale e spirituale.
La descrizione più eclatante dell'ego ci viene dall'elenco dei 7 vizi capitali: ira, accidia, superbia, lussuria, avarizia, invidia, gola, che rappresenta un vasto spettro di manifestazioni dell'ego (in ordine: ira: affermazione di sé contro la volontà di Dio; accidia: lentezza nell'eseguire la volontà di Dio; superbia: mancanza di prospettiva tra il proprio essere limitato e la persona divina; lussuria e gola: eccessivo interesse per le cose materiali; avarizia: impedisce alla persona di vedere il mondo come dono; invidia: viene ignorato il principio che tutti gli esseri umani sono fratelli in virtù della comune figliolanza rispetto a Dio).
Un'altra classificazione valida è:
orgoglio, crudeltà,  egoismo, ignoranza, instabilità.
Sulla base della conoscenza di sé, ognuno potrebbe stilare altre classificazioni. La psicologia offre abbondante materiale a chi sia interessato agli elenchi: perversioni, giochi di ruolo, sottigliezze crudeli, miserie piccole e grandi che sembrano essere indissolubilmente legate alla natura dell'uomo.
A quanto detto si potrebbe aggiungere solo un breve commento su masochismo e superbia: apparentemente distanti tra loro, sono invece molto vicini, in quanto all'ego non interessa parlare di sé in positivo o in negativo, ma solo di potersi parlare addosso.

I rapporti tra ego e io non sono certo facili.  
Un caso molto comune del travisamento delle funzioni dell'io da parte dell'ego é l'amore. Per sua natura l'amore é consapevole e gioioso dono di sè, ma l'ego preferisce asservire ai propri bisogni questo sentimento estroverso e preferisce l'attaccamento, se non addirittura la dipendenza, che sia del soggetto verso la persona amata o viceversa, poco importa. Lo stesso vale per la fede, una fede travisata, meschina, egoistica.
 

domenica 10 aprile 2011

A Luisa

L’attesa



È iniziato un nuovo giorno, uno come tanti:

il sole sorge, si alza nel cielo ed infine tramonta.

E di nuovo sorge,  si alza nel cielo ed infine tramonta.

Tra un giorno e l’altro, l’attesa.

L’attesa di vedere ...,

Di vedere il sole svegliarsi

Iniziare il suo cammino fino a tramontare.

Poi di nuovo l’attesa per rivivere la gioia di un istante:


vedere il sole sorgere.

Come è bella l’attesa del tuo risveglio

Io che ti guardo e ti sfioro con un bacio nell’attesa di un tuo sorriso.

È di novo giorno e poi la notte, e l’attesa del tuo risveglio

Ogni giorno è diverso da tutti gli altri,

Ogni giorno mi dona la gioia di attendere,

L'attesa di un sorriso, l’attesa di una parola.

Com’è bella l’attesa,

Quell’attesa che accada di nuovo ciò che è da sempre,

l’attesa di una conferma di qualcosa di diverso ma,

pur sempre uguale come l’amore.








mercoledì 6 aprile 2011

MASSIMA

C'è gente che conosce il prezzo di ogni cosa, ma ne ignora il valore
Kahlil Gibran

lunedì 4 aprile 2011

Abelardo ed Eloise

Abelardo ed Eloise
Nella Parigi del XII secolo, all’ombra della cattedrale di Notre Dame, accade una delle più belle storie d’amore di tutti i tempi. I protagonisti sono Abelardo ed Eloise, lui ha trentotto anni circa ed è al massimo del successo come insegnante presso la scuola-cattedrale di Notre Dame, lei ne ha sedici, è bella e colta, di statura alta ma ben proporzionata. Eloise pur avendo quasi diciassette anni era una donna già matura negli studi, ma anche pronta ad affrontare tutte le esperienze dell'amore, con la disponibilità e apertura della donna colta e intelligente. “Aveva tutto ciò che più seduce gli amanti”.
 Eloise vive con uno zio, il canonico Fulberto, molto avaro ma anche molto ansioso di vedere sua nipote (forse figlia) progredire sempre più nelle materie letterarie.
Abelardo se ne innamora e riesce, con l’intervento di amici, a farsi accogliere in casa di Fulberto, il quale aveva accettato di ospitare Abelardo nella convinzione che la cultura della nipote sarebbe stata ulteriormente arricchita delle lezioni del più celebre maestro di Parigi. Avvenne così che il maestro e l'allieva uniti sotto lo stesso tetto, si innamorarono l'uno dell'altra.
Inizia una storia d’amore che, l’immaginario collettivo, accomunerà ad altre coppie celebri di amanti come Paolo e Francesca, Tristano e Isotta, Romeo e Giulietta.
 “Col pretesto delle lezioni ci abbandonammo completamente all'amore, lo studio delle lettere ci offriva quegli angoli segreti che la passione predilige. Aperti i libri, le parole si affannavano di più intorno ad argomenti d'amore che di studio, erano più numerosi i baci che le frasi; la mano correva più spesso al seno che ai libri... il nostro desiderio non trascurò nessun aspetto dell'amore, ogni volta che la nostra passione poté inventare qualcosa di insolito, subito lo provammo, e quanto più eravamo inesperti in questi piaceri tanto più ardentemente ci dedicavamo a essi senza stancarci”.
Se la passione di Abelardo era solo erotismo, per Eloise era amore pieno e dedizione assoluta quasi annullamento di se stessa, che durerà per tutta la vita "ti ho amato di un amore sconfinato …, mi è sempre stato più dolce il nome di amica, e se non ti scandalizzi, quello di amante, … il mio cuore non era con me ma con te”. Abelardo preso dalla passione dedica le notti all'amore e il giorno agli studi che non cura più con l'impegno di prima, tanto che le lezioni diventano poco accurate e fredde e non sono più, come egli stesso dice “frutto dell'ingegno ma della lunga pratica”. In questo periodo compone per Eloise struggenti poesie d'amore che giungono all'orecchio dei suoi studenti e si diffondono in tutta Parigi, diventando popolarissime grazie "alla dolcezza delle parole e alla bellezza del ritmo musicale". Fulberto, aperti finalmente gli occhi, caccia subito di casa Abelardo. Eloise rimane incinta. Quando lo comunica, per lettera, ad Abelardo, questi decide di portarla via con sé. Approfittando di un'assenza di Fulberto, Abelardo rapisce Eloise e la conduce al paese natale di Pallet, in Bretagna, ospitandola nella casa di famiglia. Qui, alla fine dell'anno 1116 partorisce un figlio, al quale viene dato il nome di Astrolabio (rapitore delle stelle).
Abelardo, sentendosi in colpa, si dichiara disposto a sposare Eloise, a condizione che il matrimonio rimanga segreto per non danneggiare la sua carriera. Egli, infatti, non è solo docente, ma è anche chierico, perciò non può sposarsi. Eloise è contraria al matrimonio perché avrebbe danneggiato Abelardo: “quante lacrime verserebbero coloro che amano la filosofia a causa del matrimonio... cos'hanno in comune le lezioni dei maestri con le serve, gli scrittoi con le culle, i libri e le tavolette con i mestoli, le penne con i fusi? Come può chi medita testi sacri e filosofici sopportare il pianto dei bambini, le ninne nanne delle nutrici, la folla rumorosa dei servi?”.
Tuttavia, tornati a Parigi, Eloise e Abelardo si sposano alla presenza di Fulberto e di pochi amici, senza rivelare pubblicamente il matrimonio, ma presto la famiglia di Eloise divulga la notizia. I due negano subito il fatto, ma per evitare scandali Abelardo manda Eloise nel monastero di Argenteuil dove era stata educata. I parenti pensano che Abelardo abbia costretto Eloise a farsi monaca per liberarsi di lei e decidono di vendicarsi: una notte, mentre Abelardo dorme nella sua casa, tre uomini lo aggrediscono e lo castrano.
In questa situazione infelice Abelardo decide di rifugiarsi in un monastero: “non fu una conversione ispiratami dalla devozione, bensì, lo ammetto, dalla confusione e dalla vergogna”.  Abelardo aggiunge che, “anche Eloise per mio ordine, preso prima il velo, entrò in monastero!”.
Era stata la vergogna e l'orgoglio ferito a portarlo a precipitare gli eventi, sia per se stesso, che per Eloise, che al monastero non vi era andata spontaneamente ma lui stesso l'aveva portata, chiedendole di prendere il velo. Eloise, tutta presa dall'amore per Abelardo non si sottrasse a questa richiesta, ma la sua volontà, in effetti, era stata forzata e lo fece sapere pronunciando, mentre prendeva il velo, tra lacrime e singhiozzi, il lamento di Cornelia (la giovane moglie di Pompeo, sconfitto da Giulio Cesare): “O nobilissimo sposo, o me, indegna di un simile talamo, quale diritto aveva la Fortuna su un uomo così grande?  Perché acconsentii, indegna a queste nozze, se dovevano renderti così infelice. Ora, che io accetti la pena e almeno la espii volontariamente!” (da Pharsalia di Lucano).
Le pesanti porte del monastero si chiudevano così per sempre alle spalle di una giovane di appena venti anni (1119), bella, intelligente e di elevata cultura, che avrebbe ben meritato un diverso destino. Da questo momento i due amanti si separano per sempre.
Abelardo è raggiunto dai suoi discepoli al monastero di San Dionigi (Saint Denis) per sollecitarlo a riprendere gli studi e le lezioni e se fino a quel momento si era dedicato ai ricchi, d'ora in poi le sue lezioni sono rivolte soprattutto ai poveri.  Grazie all’intervento dell’abate gli fu assegnato un eremo per insegnare e dedicarsi allo studio. Abelardo questa volta si era dedicato allo studio delle sacre scritture, abbandonando quello delle arti secolari che però gli studenti gli richiedevano con più frequenza, e lui ne approfittò buttando l'amo delle discipline secolari per poter invece parlar loro della vera filosofia, cioè della dottrina teologica. La notizia del duplice insegnamento non tardò a diffondersi e il grande maestro si vide arrivare una torma di allievi che aveva abbandonato i propri insegnanti per seguire le sue lezioni. Ciò non fece altro che far aumentare l'invidia e l'odio dei loro maestri nei suoi confronti.
Essi gli mossero l'accusa che la sua scelta monastica era incompatibile con le discipline filosofiche e, inoltre, che peccava di presunzione in quanto, pur non avendo avuto alcun maestro, si dedicava ugualmente all'insegnamento della teologia. Costoro, in effetti, volevano impedirgli di insegnare e facevano pressioni su vescovi, arcivescovi, abati e qualsiasi ecclesiastico potessero raggiungere.
In seguito ad una serie di vicissitudini che lo vedono perseguitato dai suoi rivali, invidiosi della fama raggiunta, e a una controversia sorta con i monaci del monastero di San Dionigi, lascia l’abazia e si reca nella cittadina di Provins in un eremo del convento dei monaci di Troyes, il cui priore era suo amico. Poi riconciliatosi con l’abate di San Dionigi, ottenne da questi il permesso di andare in un luogo solitario, a condizione che non si legasse a nessun'altra abbazia, in modo che il monastero non venisse privato dell'onore che gli conferiva la sua presenza.
Abelardo scelse un posto isolato e solitario dalle parti di Troyes, e, su un pezzo di terra che ottenne in regalo, avuto il consenso del vescovo, con l'aiuto di un chierico, costruì con canne e paglia, un oratorio che dedicò alla SS. Trinità. Gli studenti, venuto a sapere dove il loro maestro si era rifugiato, lo raggiunsero, accontentandosi di dormire su letti di paglia, in piccole capanne che si erano costruiti, alimentandosi con erbe selvatiche e pane duro. Costoro procuravano ad Abelardo tutto quello di cui avesse bisogno, cibo, abiti, coltivavano i campi, facevano fronte a tutte le spese, purché il loro maestro si dedicasse allo studio e non fosse distratto da alcuna preoccupazione materiale.
La durezza della vita alla quale questi scolari si erano sottoposti, agli occhi dei suoi nemici, costituiva motivo di gloria per il maestro, e di ignominia per loro. Costoro avevano fatto tutto ciò che avevano potuto contro Abelardo e alla fine si accorgevano che tutto si risolveva a suo vantaggio.
E quando l'oratorio costruito da Abelardo non poté contenere che una piccola parte di studenti, essi lo ricostruirono in pietra e legno. Abelardo che aveva dedicato l'oratorio che aveva costruito con le sue mani alla SS. Trinità, ora, sentendosi più sollevato, chiamò il nuovo oratorio <Paracleto cioè Consolatore>.
I guai per Abelardo non erano finiti, due nuovi nemici si profilavano all'orizzonte: Norberto di Magdeburgo, fondatore di un nuovo ordine, quello dei Canonici Regolari di Prémontré (presso Laon, da cui il nome di premonstratensi), e Bernardo di Clairveux fondatore dell’ordine dei templari.
Abelardo viveva nel continuo timore di essere trascinato in un concilio o in un tribunale per essere giudicato come eretico o sacrilego.
In quel periodo gli venne proposto di dirigere un'abbazia, quella di S. Gildas de Rhuys (nei pressi di Vannes in Bretagna), che aveva perduto il suo abate. La proposta gli era stata fatta dagli stessi monaci di quest'abbazia che lo avevano prescelto, col consenso del signore di quella zona. Abelardo, avuto il consenso del suo abate e dei confratelli accettò, ma soltanto per sfuggire alle persecuzioni. L'abbazia si trovava all'estrema propaggine di una terra in prossimità dell'oceano.
Cosa ne è stato di Eloise?
Eloise, dopo aver preso il velo monastico, si trovava come abbiamo visto nel convento di Argenteuil dove era priora di grado inferiore solo alla badessa. In occasione della riforma monastica che si stava preparando per tutte le abbazie della Gallia, il convento passò sotto la giurisdizione dell’abazia di S. Dionigi e le monache furono costrette ad andare via. Quando Abelardo venne a sapere che le monache sarebbero state disperse tra i vari monasteri, donò loro il suo oratorio al Paracleto.   Il Papa Innocenzo II, confermò la donazione anche per tutte le monache che fossero arrivate in futuro, anche con l'ulteriore assenso del vescovo.
All'inizio in quel nuovo monastero le monache conducevano una vita povera. In breve tempo però, quelli che abitavano intorno al monastero, presi da benevolenza e compassione, le aiutarono a coltivare la terra. Eloise aveva tanta grazia agli occhi di tutti che i vescovi l'amavano come fosse una figlia, gli abati come una sorella, i laici come una madre, e tutti ne ammiravano lo spirito religioso, la saggezza, l'inimitabile dolcezza e pazienza. Eloise si lasciava vedere raramente, dedita, nel chiuso della sua cella alla preghiera e alla meditazione, per questo era ancora più desiderata e i suoi consigli spirituali ricercati. Dopo qualche anno (1136) Eloise divenne badessa del convento.
Anche in quest’occasione non poterono mancare accuse e insinuazioni nei confronti di Abelardo. Tutti quelli che abitavano nelle vicinanze del monastero accusavano Abelardo di non provvedere alla povertà del convento. Per questo motivo egli prese l'abitudine di recarsi al convento più spesso, per aiutare le monache in qualche modo.
Queste visite non fecero che suscitare invidie e mormorazioni e ciò che lui faceva per carità, era considerato come spudoratezza dai suoi detrattori i quali andavano dicendo che era preso ancora da desideri carnali e che non poteva sopportare di star lontano dalla donna che un tempo aveva amato.
 Abelardo interruppe le sue visite al convento, ma le sue disavventure non erano finite.   Norberto e Bernardo avevano preso dagli acerrimi nemici di Abelardo le consegne per vendicare i loro risentimenti e le loro invidie, non avevano dimenticato che vi era un uomo, in un angolo disperso della Gallia, che pur avendo, con il suo intelletto, illuminato gli studi di diverse branche del sapere umano, aveva avuto il torto di introdurre in quegli studi, nuovi percorsi che avevano anticipato i tempi a venire.
Il torto di quell'uomo era stato quello di aver entusiasmato, con la sua personalità, il suo carisma e l'arte raffinata della parola, torbe di allievi che lo avevano seguito in qualunque parte fosse andato a nascondersi.
Bernardo riesce a inscenare un processo nei confronti di Abelardo e a far emettere una condanna di eresia nei confronti di tutte le sue opere. Abelardo decide di rivolgersi al Papa e si mette in cammino per Roma facendo tappa a Cluny. L’abate di questo monastero era Pietro il Venerabile, che lo accoglie amorevolmente e lo convince a non andare a Roma e a fermarsi a Cluny.
Da qui scrive a Eloise «Mi vedrai presto, per fortificare la tua pietà con l'orrore di un cadavere e la mia morte, ben più eloquente di me, ti dirà che cosa si ama quando si ama un uomo». Abelardo chiede all'amata di seppellire il suo corpo nel cimitero del Paràclito.
La notizia della sua morte, avvenuta dopo due anni dal suo arrivo a Cluny, il 21  aprile del 1142, è data a Eloise da Pietro il Venerabile: «Cara e venerabile sorella in Dio, colui al quale dopo il legame carnale, siete stata unita dal legame più elevato e più forte dell'amore divino, colui col quale e sotto il quale avete servito il Signore, Questi... lo riscalda nel suo seno e nel giorno della sua venuta... lo custodirà per rendervelo con la sua grazia». Sepolto dapprima nel vicino eremo di Saint-Marcel (una dipendenza dell'abbazia di Cluny), nel dicembre dello stesso anno è traslato nel Paràclito, dove Eloise ne accoglie le spoglie. Alla sua morte, il 16 maggio 1164 anche Eloise vuole essere sepolta nello stesso loculo: una romantica leggenda riferisce che le braccia del cadavere di Abelardo si aprissero nel momento della deposizione della moglie.
I resti dei due amanti, già inumati all'esterno del Paràclito sotto un rosaio, spostati ancora all'interno, furono più volte ispezionati. Il convento fu venduto nel 1792 (ora ne restano dei ruderi), rispettando la tomba: nel 1800 il loro feretro fu trasportato a Parigi nel cimitero del Père Lachaise e l'anno dopo fu costruita una cappella. Ancora spostati nel 1814 al tempo della restaurazione monarchica, alla fine del 1817 furono finalmente ricollocati nella stessa cappella dove tuttora riposano.