lunedì 24 giugno 2013

IO POSSO

 “Le persone esistono qui l’una per l’altra soltanto come rappresentanti di merci, quindi come possessori di merci. Troveremo in generale, man mano che la nostra  esposizione procederà, che le maschere economiche, caratteristiche delle persone, sono soltanto le personificazioni di quei rapporti economici, come depositari dei quali esse si trovano l’una di fronte all’altra”. K. Marx ( Il capitale. Critica dell’economia politica. Ed. Riuniti, Roma 1964, libro I,sez. I, cap.II, pp 117-118.)
L’individuo come persona non ha alcuna rilevanza ciò che conta è la merce che rappresenta. Nella società di oggi, in nome del progresso, le persone sono state private dell’anima e rese funzionali a un sistema. Oggetti da utilizzare quando servono e dove servono, non più uomini che entrano in relazione con altri uomini, ma esseri che si relazionano con un apparato all’interno del quale si è in relazione non con la propria identità ma con la propria funzione. Poco o niente interessano le capacità, le attitudini, le competenze di una persona, meno ne hanno meglio è, più facile sarà sostituirle.  E’ nata così una società basata sull’inganno perché si è sviluppata su  falsi valori. In cambio di una vita comoda che  ha permesso di comprare vestiti griffati e quant’altro potesse servire a dimostrare che non si era un morto di fame, abbiamo venduto la nostra anima. Il superfluo  è diventato necessario per creare un immagine di sé,  e ai figli non si è più parlato di quei valori della famiglia  che ti conferivano una identità, che ti davano il senso di appartenenza, che ti davano la forza di affrontare sacrifici per affermare un’idea o per conseguire un risultato, che davano importanza alla parola data, ad una stretta di mano, all’amicizia.  Il risultato è che oggi non si è più capaci di lottare e si è dominati da un senso di impotenza. L'angoscia, che  ha un'innegabile connessione con l'attesa del peggio, fa la sua comparsa. Si è diventati schiavi di un sistema che ti ha privato  dell’anima e della voglia di sognare.  Un giovane che ha un sogno lo difende con tutto se stesso   come lo studente che, da solo e completamente disarmato, si parò davanti a una colonna di carri armati  per fermarli nella piazza di Tienanmen. Oggi è di questi giovani, capaci di rivendicare il diritto di avere un sogno, che si ha bisogno, in essi sono riposte le speranze perché le cose cambino in meglio.  E’ giunto il tempo di dire basta a chi fa false promesse, di dire ” io esisto e ho  deciso di difendere il mio sogno”.  Politici e sindacati dicono continuamente che la crisi ha portato ad un ampliamento della forbice tra ricchi e poveri, che è in atto  una crisi globale, che bisogna fare sacrifici e sperare in tempi migliori. Oltre a raccontare queste cose che ognuno già sa perché le vive sulla propria pelle cosa fanno? Perché non tolgono quel tanto ai ricchi per non farli diventare più ricchi di quanto già sono, e lo  danno ai poveri, così entreranno in circolo più soldi e, con l’aumento dei consumi interni, tutti ne trarranno benefici? Invece no per i politici le cose non sono così semplici e ci raccontano un sacco di fesserie per convincerci che non si può, non si possono toccare i ricchi, non si possono abolire privilegi,  meglio togliere ancora un pochino a chi ha quasi niente, così si racimoleranno più soldi per le banche e le industrie che poi, forse, daranno più lavoro. Basta bugie.


domenica 25 settembre 2011

riflessioni

Si va sempre di fretta e la nostra vita è un continuo correre. Manca il tempo per pensare e la calma nel pensare, e spesso non si ha il tempo per riflettere su opinioni divergenti e ci si accontenta di essere semplicemente contrari. Il vivere in un mondo dove la fretta la fa da padrone fa sì che lo spirito e l'occhio vengono adattati ad un falso vedere e ad un falso giudicare al punto da farci somigliare a quei viaggiatori  che fanno la conoscenza di paesi e popoli dal treno.

domenica 12 giugno 2011

Pudore e Vergogna

In questo dipinto del Masaccio “Cacciata dal paradiso terrestre”(1426-28) si vede l’incedere straziante e doloroso  di Adamo ed Eva nudi.
Scoprono di essere nudi solo dopo aver mangiato dell'albero della conoscenza del bene e del male; e solo dopo aver violato il comandamento divino che vietava di mangiare da quell'albero.  Non è la nudità  rinascimentale che vediamo in questo dipinto: Eva non è una Venere nuda, il suo corpo è greve e sformato; Adamo non è un Ercole nudo.  Mentre Eva con le mani si copre le parti intime,  Adamo  il viso.  La loro è una nudità di vergogna e dolore. L’ombra diventa  protagonista in quanto  metafora del pudore.
   Il cuore dell’affresco è concentrato sulle due teste: quella di Eva è all’indietro, grida la sua angoscia, la bocca sembra una cavità, i suoi occhi sono occhiaie, il tutto richiama alla mente il  teschio quale espressione di morte. La testa di Adamo è ripiegata in avanti e chiusa fra le mani come a voler contenere un urlo.  L'ombra nel dipinto  dà spessore ai corpi, rivela e nasconde, indica la provenienza della luce, lo sguardo di Dio. Il gesto con cui il senso di colpa spinge Adamo a coprirsi, a nascondersi, rappresenta tutto ciò che lo rende, da quel momento,  diverso dall'animale. La vergogna e il pudore diventano aspetti  caratterizzanti dell’uomo.
Come gli oggetti, quando sono esposti alla luce, conservano qualcosa di non visibile, quasi a difendere il diritto a esistere in qualche misura come soggetti, allo stesso modo il senso del pudore si fonda sul non-svelare, inteso non come ciò che si vuole nascondere, ma come ciò che non si può ridurre a qualcosa che è o non è.
Il senso di  pudore e vergogna che viene rappresentato in quest’opera del Masaccio sembra del tutto estraneo ai nostri tempi, l'ideale della trasparenza, della sincerità a tutti i costi è la smania patologica del mondo contemporaneo. Un corpo e una psiche messi a nudo completamente rispondono all'ideale della modernità, in cui si deve sapere tutto, mostrare tutto. Tutti devono vedere tutti gli altri nella loro nudità trasparente. La pretesa di avere qualcosa di proprio, sia poi questo spirituale, ideale o materiale, suscita sospetti di ogni genere.
 La privacy è divenuta oggetto di tutela giuridica solo nell'epoca in cui non solo non esiste di fatto più alcuna
privacy, ma il rivendicarla è divenuto, equivocamente, un comportamento riprovevole, un segno di insincerità e una minaccia potenziale.
I  soggetti esposti alla luce accecante del mito contemporaneo, la trasparenza assoluta,  diventano dei quasi-oggetti. La quasi-oggettualità è la dimensione in cui lo spazio del segreto e il margine di manovra della trascendenza del soggetto è ridotto al minimo. L'individuo è così indotto a non avere più nulla di proprio, a non vedere nulla di sé che anche gli altri non vedano, non avendo nulla da celare viene meno anche il senso della vergogna. Tutto può essere perdonato se esposto in una confessione che non tralascia nulla. Infatti ci si vergogna dell'inconfessato o dell'inconfessabile, non di ciò che si è confessato interamente.  
Abbattuta  la barriera,   che consente di distinguere l’interiorità dall’esteriorità, viene a mancare  quella parte discreta, singolare, privata,  intima di ciascuno di noi che ci da  spessore, che ci consente di non essere diafani. Il nostro intimo è ciò che si nega all’estraneo per concederlo a chi si vuol fare entrare nel proprio segreto profondo, allora il pudore, che difende la nostra intimità, difende anche la nostra libertà. E difende quel nucleo dove la nostra identità personale decide che tipo di relazione instaurare con l’altro. Il pudore, non è una faccenda di vesti, ma una sorta di vigilanza, dove si decide il grado di apertura e di chiusura verso l’altro. Si può essere nudi senza nulla concedere, senza aprire all’altro neppure una fessura della propria anima. La nudità del nostro corpo non dice ancora nulla della nostra disponibilità all’altro. Siccome agli altri siamo irrimediabilmente esposti  e, come ci ricorda Sarte, “dallo sguardo degli altri siamo immediatamente oggettivati”, il pudore è un tentativo di mantenere la propria soggettività. E qui l’intimità si coniuga con la discrezione, nel senso che, se essere in intimità con un altro significa essere irrimediabilmente nelle mani dell’altro, nell’intimità occorre essere discreti e non svelare per intero il proprio intimo, affinché non si dissolva quel mistero che, se interamente svelato, estingue non solo la fonte della fascinazione, ma anche il recinto della nostra identità, che a questo punto non è più disponibile neppure per noi.
Ma oggi, in nome della globalizzazione, si vuole la pubblicizzazione dell’intimo, perché in una società consumistica, dove  anche le persone rischiano di essere merci, i giovani hanno la sensazione di esistere solo se si mettono in mostra. In questo modo molti giovani scambiano la loro identità con la pubblicità dell’immagine e, così facendo, si producono in quella metamorfosi dell’individuo che non cerca più se stesso, ma la pubblicità che lo costruisce. Per effetto di questa esposizione il pudore non è più  il tracciato di un limite. Per esserci bisogna dunque apparire. E chi non ha nulla da mettere in mostra, non una merce, non un corpo, non un’abilità, non un messaggio, pur di apparire e uscire dall’anonimato mette in mostra la propria interiorità, dove è custodita quella riserva di sensazioni, sentimenti, significati  “propri” che resistono all’omologazione, che, nella nostra società di massa, è ciò a cui il potere tende per una più comoda gestione degli individui.
Il Grande fratello e l’isola dei famosi sono stati creati sostanzialmente per questo.  Eppure queste trasmissioni, che dobbiamo considerare più pornografiche della pornografia propriamente detta, perché denudare la propria anima è peggio che denudare il proprio corpo, si alimentano dei cascami della cultura religiosa che, per quanto laicizzata, ancora si nutre della sua simbologia. E non si fatica a cogliere nell’occhio del grande fratello la trasposizione dell’occhio di Dio.
Il grande fratello e trasmissioni simili offrono a tutti i fruitori della televisione e di internet la possibilità di scrutare l’anima altrui, perché è quella che viene fuori dopo alcuni giorni, quando, disimpegnati da qualsiasi attività, i protagonisti non avranno altro da fare che sfoderare davanti a milioni di spettatori la loro anima nei suoi aspetti  resi patologici dall’inattività.
Il risultato di queste trasmissioni ha un fine politico, perché la pubblicizzazione del privato è l’arma più efficace impiegata nelle  società conformiste per togliere agli individui il loro tratto discreto, singolare, intimo. Allo scopo vengono solitamente impegnati i mezzi di comunicazione che, dalla televisione ai giornali, irrompono con indiscrezione nella parte discreta dell’individuo, per ottenere, non solo attraverso test, questionari, campionature, statistiche, ma anche e soprattutto con intime confessioni, emozioni in diretta, storie d’amore, trivellazioni di vite private, che sia lo stesso individuo a consegnare la sua interiorità, la sua parte più intima, rendendo pubblici i suoi sentimenti, le sue emozioni, secondo quei tracciati di spudoratezza che vengono acclamati  come espressioni di sincerità, perché in fondo: “non si ha nulla da nascondere, nulla di cui vergognarsi”.
Questi tracciati segreti dell’anima, in cui ciascuno dovrebbe riconoscere le radici profonde di se stesso, una volta immessi senza pudore nel circuito della pubblicizzazione, quando non addirittura in quello della pubblicità, non sono più proprietà privata ma comune. E questo sia in ordine alla qualità del vissuto, sia in ordine al modo di viverlo, perché il pudore, prima di una faccenda di mutande che uno può cavarsi o infilarsi quando vuole, è una faccenda d’anima che una volta perso, non esiste semplicemente più.
Quanti sono interessati a che l’individuo non abbia più segreti  e al limite neppure più interiorità alimentano il proliferare di queste trasmissioni che veicolano la persuasione che la spudoratezza è una virtù: la virtù della sincerità. Le istanze del conformismo e dell’omologazione lavorano per portare alla luce ogni segreto, per rendere visibile ciascuno a ciascuno. Di qui la necessità di rivendicare i diritti del pudore per sottrarre l’individuo a quei processi di omologazione in cui ciascuno di noi rischia di perdere il proprio nome.
Il pudore quindi non è una virtù in senso canonico, ma rappresenta  uno stato di allarme, trasmette la percezione di un transito, di un confine, di una linea d'ombra, nel momento stesso in cui si va verso un eccesso.
il pudore è un sentimento ambivalente che oscilla tra la preservazione della propria identità e la paura di aprirsi al mondo dell’altro, paura spesso legata alla sfera sessuale, per cui diventa uno strumento di misurazione dei comportamenti sessuali
(nel romanzo “Il Gattopardo” di G. Tomasi di Lampedusa, il principe Fabrizio di Salina, confida al suo confessore che ha avuto cinque figli, senza aver visto mai sua moglie nuda) che oggi sono vissuti come il residuato di una mentalità arcaica. La cosiddetta rivoluzione sessuale ha messo sotto processo questo sentimento, ritenendolo il maggior responsabile delle più gravi forme di alienazione della vita personale e sociale. Ma questa visione, per quanto storicamente dominante, non corrisponde alla vera natura del pudore, il quale ha il suo significato nella natura stessa dell’uomo e il suo obiettivo nella difesa dell’unicità e irripetibilità della persona, la quale è condizione essenziale per lo sviluppo di autentiche relazioni interpersonali, la cui verità è data dal rispetto della propria e dell’altrui diversità.
Il rifiuto del pudore comporta che l’uomo si riduce a  un prodotto della società. I motivi di questa reificazione vanno rinvenuti nella omologazione culturale indotta dai mass media, come già detto, e dall’uso ideologico delle scienze umane (la pretesa di spiegare, in termini totali, attraverso di esse, l’essere e l’agire dell’uomo).  E’ una nuova forma di obiettivazione che vanifica l’intimità personale e distrugge alla radice la possibilità di comunicazione interumana.
L’incomunicabilità, che caratterizza l’attuale fase sociale, è anche il frutto di questa tendenza. Infatti la comunicazione può realizzarsi solo dove esistono soggetti che hanno una precisa identità e interagiscono tra loro in reciprocità.  In altre parole, dove si attivano dei processi di comprensione, i quali comportano  il rispetto del mondo interiore delle persone, cioè: no alla riduzione del soggetto a oggetto, no alla assolutizzazione del soggetto. Il primo aspetto chiede l’assoluto rispetto della sfera intima del soggetto che non può venire espropriata. Il secondo aspetto chiede la costante apertura all’altro, come condizione essenziale di maturazione della propria autocoscienza e autorealizzazione (non posso realizzarmi se non nella relazione con gli altri). Quindi sono necessari sia il confronto sia lo scambio e ciò comporta “coinvolgimento” e “distanza”. Il “coinvolgimento” fa aprire se stessi all’altro e ci fa accogliere la rivelazione che l’altro ci fa di sé. La “distanza” ci impedisce di violarlo, e di accettarlo per ciò che è, senza volerlo fare simile a noi.
Il pudore è un sentimento che nasce e si sviluppa da questa esigenza: vuole proteggere la propria intimità e l’intimità altrui.
Il pudore nasce dalla consapevolezza che solo dove esistono identità ben definite la relazione si fa autentica, perché la relazione umana è unità nella e della diversità, esclude ogni forma di omologazione (dominio che rende servi) e apre l’orizzonte di un’alterità assoluta.
Il pudore riguarda tutte le relazioni che l’uomo vive. Prima di essere atti concreti è un modo di essere di ciascuno di noi: coscienza di sé e coscienza – rispetto dell’altro.
Per viverlo occorre una radicale autenticità (trasparenza) verso se stessi e insieme una grande disponibilità (accoglienza che mantiene il rispetto della differenza) verso l’altro.
E’ all’interno di questo contesto che vanno inserite le dinamiche dell’affettività, dell’eros, della corporeità.  

sabato 14 maggio 2011

Andromaca


Andromaca è uno dei personaggi più affascinanti della mitologia greca, i tragici eventi di una guerra, che la privano degli affetti più cari, fanno di lei il simbolo di tutti gli esiliati.
Andromaca rappresenta la donna nei suoi aspetti più tragici,  è  non solo una delle prime grandi figure di  sposa dolorosa, ma anche  di donna separata dai suoi  cari, umiliata, strappata alla sua casa, alle sue origini, ridotta alla sorte di un qualsiasi bottino di guerra spartito brutalmente tra i vincitori.
 La figura di Andromaca compare per la prima volta nel VI libro dell'Iliade   mentre scongiura  inutilmente il marito Ettore di non   battersi con Achille, lo vedrà morire atrocemente   in quell’ ultimo duello sotto le mura della città. E’ l’inizio dei suoi dolori.
 Caduta Troia, le viene strappato dalle braccia il figlio Astianatte per essere lanciato dalle mura della città da Neottolemo. Preda di guerra diventa schiava e concubina del re dell’Epiro.

Andromaca racchiude nella sua figura l’impotenza e la sofferenza di una donna, da personaggio letterario diventa simbolo   della donna separata dai suoi cari, umiliata, strappata alla sua casa, alle sue origini, ridotta alla sorte di un qualsiasi bottino di guerra.
E tornerà ad abitare la poesia - da Virgilio a Racine, per fare soltanto qualche nome. Ma è forse Baudelaire il poeta che grida il suo nome più forte e più alto di tutti, in una meravigliosa poesia di "Les fleurs du mal" intitolata "Le Cygne" - Il cigno.


Baudelaire scrive Le Cygne nei giorni in cui il centro di Parigi è sconvolto dalle grandi demolizioni di molti vecchi quartieri popolari per far posto al nuovo sistema centralizzato dei grandi boulevards. «La vecchia Parigi è scomparsa (la forma di una città / cambia più in fretta, purtroppo, del cuore di un mortale)»... Ma in questo scenario sconvolto la figura di Andromaca in esilio folgora l'immaginazione del poeta. «Andromaque, je pense à vous!». «È a te che penso, Andromaca!» così incomincia Le Cygne - mentre il poeta ha davanti agli occhi un povero cigno scappato dalla sua gabbia, e intento a cercare disperatamente un corso d' acqua degno del suo corpo maestoso tra gli sporchi rigagnoli che scorrono tra le rovine delle demolizioni. La condizione di Andromaca in esilio, lungo la riva di fiumi sconosciuti, è paragonata a quella del nobile animale ridotto in cattivo stato da un destino avverso  - «Tesa la testa avida sul collo convulso / Come se stesse lanciando rimproveri a Dio».

 La seconda parte della poesia inizia con la descrizione di Parigi che viene stravolta in nome dell’efficienza: «Parigi cambia - non è cambiato niente nella mia melanconia»... E, alle spalle di quella coppia simbolica formata da Andromaca in esilio, ridotta a preda di guerra, e dal cigno nel fango, viene evocato, tutto un corteo di creature umiliate e offese. « penso a chi   ha perduto ciò che non ritorna mai! mai! A coloro, che il pianto disseta  

e che il Dolore allatta come una lupa buona!...».

Ultima figura che si affianca ad Andromaca è quella di un'africana immigrata a Parigi, il suo presente era rimpiangere il passato,il mito e la storia si sono ricomposti in lei: «Penso alla donna nera, dimagrita e tisica,

che strascica i piedi  nel fango, gli occhi stravolti, che cercano le palme assenti dell’Africa superba dietro ad un’ immensa muraglia di foschia». Il circolo è chiuso. Il Cigno-Andromaca-l' africana a Parigi. La sconfitta, la perdita, la decadenza, il rimpianto. E tutto questo non tanto come condizione occasionale, riportabile a vicende particolari, tutto questo come una specie di condizione di fondo per le grandi masse che vivono in una metropoli, lacerata da contraddizioni inconciliabili tra le pretese spietate dello sviluppo industriale e le fragili esigenze di masse sempre più grandi di persone che si vedono coinvolte, costrette da un ambiente completamente nuovo e, per molti aspetti, ostile, duro, violento.



Il cigno


 A Victor Hugo


I


È a te che penso, Andromaca! Quel ruscello sottile,
 misero opaco specchio dove un tempo rifulse,
 immensa, la maestà del tuo dolore vedovile,
 quel falso Simoenta, gonfiato dal tuo pianto,
 ha fecondato a un tratto la mia fertile memoria,
mentre attraversavo il nuovo Carrousel.
 Muore la vecchia Parigi (ahimè, il volto d’una città
muta più rapido  d’un cuore mortale);
solo nel ricordo vedo quel campo di baracche,
mucchi di capitelli sbozzati e colonnine,
gran blocchi che le pozze inverdiscono, erbacce
e confuse anticaglie luccicanti in vetrine.
Là, un tempo sorgeva un serraglio;
è là che vidi, un giorno, sotto un cielo diafano
e gelido, nell’ora in cui il Lavoro è al risveglio
e lo spazino  alza nell’aria un cupo uragano,
un cigno che, scappato dalla sua voliera,
raspando con i piedi palmati sul selciato,
trascinava piume bianche sulla scabra terra.
La bestia a becco aperto in un rivo seccato
bagnava nervosamente le ali nella polvere,
dicendo in cuor suo, colmo del bel lago natale:
“Acqua, quando cadrai? Quando tuonerai, folgore?”
Rivedo quell’infelice, mito fatale e strano,
come l’uomo d’Ovidio,tendere la testa  sopra il contorto collo
verso il cielo sarcastico, crudelmente azzurro,
come se rivolgesse dei rimproveri a Dio.


II


Parigi cambia! Ma nella mia malinconia
niente muta! Impalcature, massi, nuovi edifici,
vecchi sobborghi, tutto  per me diventa allegoria,
e i miei cari ricordi  sono più duri delle selci.
Così, davanti al Louvre, un’immagine m'opprime:
penso al mio grande cigno, e ai suoi folli gesti,
come ad un esiliato, ridicolo e sublime
e roso senza tregua da un desiderio! E penso te,
Andromaca!  dal braccio di un grande sposo
caduta, vile bestia, al fiero Pirro in mano,
china in estasi sopra un sepolcro vuoto,
vedova d’Ettore, ahimè! E d'Eleno consorte!
Penso alla donna nera, dimagrita e tisica,
che strascica i piedi  nel fango, gli occhi stravolti, che cercano
le palme assenti dell’Africa superba
dietro ad un’ immensa muraglia di foschia;
penso a chi   ha perduto ciò che non ritorna
mai! mai! A coloro, che il pianto disseta  
e che il Dolore allatta come una lupa buona!
Penso agli orfanelli magri e, come fiori, appassiti!
Così nella foresta ove la mente si esula
il corno risuona alto il richiamo di un Ricordo antico!
E penso ai marinai su un'isola obliati,
ai prigionieri, ai vinti! … e ad altri, ad altri ancora!
Charles Baudelaire






domenica 1 maggio 2011

L'urlo

L’atto fondativo delle prime comunità è stato probabilmente Il grido.Il grido segna l’inizio della vita sociale dell’uomo. Emanuele Severino nel suo libro “Il parricidio mancato” a proposito del grido scrive: “il grido sta all’inizio della vita dell’uomo sulla terra. Il grido di caccia,di guerra, d’amore, di terrore, di gioia, i dolore, di morte. ... L’uomo si raccoglie attorno al proprio grido, in assenza degli eventi che lo hanno provocato.  Al  grido sono legati gli aspetti decisivi dell’esistenza e nella rievocazione del grido le più antiche comunità umane non solo scorgono le trame che le formano, ma annodano stabilmente i fili della trama, cioè si stabiliscono e confermano nel loro essere comunità umane”.
Edvard Munch nella sua opera  “L’urlo” rievoca  momenti di terrore e angoscia vissuti in prima persona: «Passeggiavo con due amici quando il sole tramontò. Il cielo divenne all’improvviso di un rosso sangue. Io mi  fermai, mi appoggiai stremato a un parapetto. Il fiordo di un nero cupo, bluastro, e la città erano inondati di sangue e devastati dalle fiamme. I miei amici proseguirono il cammino, mentre io, tremando ancora per l’angoscia, sentii che un grido senza fine attraversava la natura».
Il grido di Gesù: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” esprime non solo la profondità e l’intensità della sua sofferenza ma anche il sentimento di desolazione e di abbandono.  Quel grido di dolore e di abbandono di Gesù è il grido che ogni uomo dovrebbe accogliere e farlo proprio per riconoscerlo nei drammi di questo mondo, nelle povertà materiali e spirituali, nelle sofferenze più atroci, nel peccato, negli orfani abbandonati, in tutte quelle persone separate o divorziate, in quei genitori che hanno perso i figli, in quelle persone che hanno perso il fratello o l'amico, la moglie o marito.

giovedì 28 aprile 2011

un libro da leggere

Il racconto dei racconti
di Giambattista Basile( 1575-1632)

Il titolo originale è "Lo cunto de li cunti overo lo trattenimento de' peccerille".
E' una raccolta di fiabe popolari che si narravano a Napoli ed è stato  scritto in un antico e non facile dialetto napoletano. Sono cinquanta fiabe divise in cinque giornate. 
La raccolta è stata tradotta in italiano per la prima volta dal Benedetto Croce, oggi si trova in commercio la traduzione di Ruggero Guarini.
Il cunto de li cunti è il più antico e il più artistico di tutti i libri di fiabe popolari ma, non sono, se non in pochi casi, fiabe per bambini. Giambattista Basile è scrittore prevalentemente per adulti. Sono le persone colte a leggerlo e ad apprezzarlo come merita.  Ci sono certamente dei racconti, come La fiaba dell’orco, Peruonto, La pulce, La cerva fatata, La gatta cenerentola, che  possono benissimo essere letti e gustati dai piccoli lettori; ma la maggior parte delle fiabe, per la vitalità della scrittura e per l’ambiguità dei significati possono essere intesi e apprezzati soltanto da chi ha dimestichezza con i grandi narratori.
Strano però a dirsi, questo libro importante e misconosciuto in Italia venne subito apprezzato, nonostante le difficoltà del dialetto, e tradotto in Germania, in Francia, in Inghilterra.Ecco il giudizio di Grimm (i brani sono riportati da Croce nel suo saggio del 1911: 
<<basile ha raccontato secondo il gusto di un popolo vivace, spiritoso e scherzoso, con continue allusioni a usi e costumi, e anche alla storia antica e alla mitologia, la cui conoscenza, specialmente tra gl’italiani, è abbastanza diffusa; sicchè il suo stile è proprio l’antitesi di quello calmo e semplice delle fiabe tedesche.
E’ straordinariamente ricco di espressioni metaforiche, proverbiali e spiritose, delle quali ha grande provvista e che per lo più sono calzantissime: non di rado la parola, secondo il costume del paese, è libera, sfacciata, senza veli … tuttavia, non si può dire di lui, come dello Straparola, che sia immorale.
… Quando vi si acquisti una certa familiarità, la forma davvero attraente di queste fiabe reca diletto grande. … In graziose e svariate immagini si ritrae il rumorio e mormorio dei ruscelli. In profonda oscurità delle selve, il cantare degli uccelli in mezzo alla pompa orientale, si percepiscono le più lievi voci della natura. Il discorso corre ricco di paragoni, giuochi di parole, proverbi; … e anche qui, come nelle schiette fiabe di tutti i popoli, quando la narrazione giunge al punto importante, compaiono rime semplici ma inimitabili, che fermano l’attenzione del narratore
e insieme dell’uditore>>
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mercoledì 27 aprile 2011