domenica 12 giugno 2011

Pudore e Vergogna

In questo dipinto del Masaccio “Cacciata dal paradiso terrestre”(1426-28) si vede l’incedere straziante e doloroso  di Adamo ed Eva nudi.
Scoprono di essere nudi solo dopo aver mangiato dell'albero della conoscenza del bene e del male; e solo dopo aver violato il comandamento divino che vietava di mangiare da quell'albero.  Non è la nudità  rinascimentale che vediamo in questo dipinto: Eva non è una Venere nuda, il suo corpo è greve e sformato; Adamo non è un Ercole nudo.  Mentre Eva con le mani si copre le parti intime,  Adamo  il viso.  La loro è una nudità di vergogna e dolore. L’ombra diventa  protagonista in quanto  metafora del pudore.
   Il cuore dell’affresco è concentrato sulle due teste: quella di Eva è all’indietro, grida la sua angoscia, la bocca sembra una cavità, i suoi occhi sono occhiaie, il tutto richiama alla mente il  teschio quale espressione di morte. La testa di Adamo è ripiegata in avanti e chiusa fra le mani come a voler contenere un urlo.  L'ombra nel dipinto  dà spessore ai corpi, rivela e nasconde, indica la provenienza della luce, lo sguardo di Dio. Il gesto con cui il senso di colpa spinge Adamo a coprirsi, a nascondersi, rappresenta tutto ciò che lo rende, da quel momento,  diverso dall'animale. La vergogna e il pudore diventano aspetti  caratterizzanti dell’uomo.
Come gli oggetti, quando sono esposti alla luce, conservano qualcosa di non visibile, quasi a difendere il diritto a esistere in qualche misura come soggetti, allo stesso modo il senso del pudore si fonda sul non-svelare, inteso non come ciò che si vuole nascondere, ma come ciò che non si può ridurre a qualcosa che è o non è.
Il senso di  pudore e vergogna che viene rappresentato in quest’opera del Masaccio sembra del tutto estraneo ai nostri tempi, l'ideale della trasparenza, della sincerità a tutti i costi è la smania patologica del mondo contemporaneo. Un corpo e una psiche messi a nudo completamente rispondono all'ideale della modernità, in cui si deve sapere tutto, mostrare tutto. Tutti devono vedere tutti gli altri nella loro nudità trasparente. La pretesa di avere qualcosa di proprio, sia poi questo spirituale, ideale o materiale, suscita sospetti di ogni genere.
 La privacy è divenuta oggetto di tutela giuridica solo nell'epoca in cui non solo non esiste di fatto più alcuna
privacy, ma il rivendicarla è divenuto, equivocamente, un comportamento riprovevole, un segno di insincerità e una minaccia potenziale.
I  soggetti esposti alla luce accecante del mito contemporaneo, la trasparenza assoluta,  diventano dei quasi-oggetti. La quasi-oggettualità è la dimensione in cui lo spazio del segreto e il margine di manovra della trascendenza del soggetto è ridotto al minimo. L'individuo è così indotto a non avere più nulla di proprio, a non vedere nulla di sé che anche gli altri non vedano, non avendo nulla da celare viene meno anche il senso della vergogna. Tutto può essere perdonato se esposto in una confessione che non tralascia nulla. Infatti ci si vergogna dell'inconfessato o dell'inconfessabile, non di ciò che si è confessato interamente.  
Abbattuta  la barriera,   che consente di distinguere l’interiorità dall’esteriorità, viene a mancare  quella parte discreta, singolare, privata,  intima di ciascuno di noi che ci da  spessore, che ci consente di non essere diafani. Il nostro intimo è ciò che si nega all’estraneo per concederlo a chi si vuol fare entrare nel proprio segreto profondo, allora il pudore, che difende la nostra intimità, difende anche la nostra libertà. E difende quel nucleo dove la nostra identità personale decide che tipo di relazione instaurare con l’altro. Il pudore, non è una faccenda di vesti, ma una sorta di vigilanza, dove si decide il grado di apertura e di chiusura verso l’altro. Si può essere nudi senza nulla concedere, senza aprire all’altro neppure una fessura della propria anima. La nudità del nostro corpo non dice ancora nulla della nostra disponibilità all’altro. Siccome agli altri siamo irrimediabilmente esposti  e, come ci ricorda Sarte, “dallo sguardo degli altri siamo immediatamente oggettivati”, il pudore è un tentativo di mantenere la propria soggettività. E qui l’intimità si coniuga con la discrezione, nel senso che, se essere in intimità con un altro significa essere irrimediabilmente nelle mani dell’altro, nell’intimità occorre essere discreti e non svelare per intero il proprio intimo, affinché non si dissolva quel mistero che, se interamente svelato, estingue non solo la fonte della fascinazione, ma anche il recinto della nostra identità, che a questo punto non è più disponibile neppure per noi.
Ma oggi, in nome della globalizzazione, si vuole la pubblicizzazione dell’intimo, perché in una società consumistica, dove  anche le persone rischiano di essere merci, i giovani hanno la sensazione di esistere solo se si mettono in mostra. In questo modo molti giovani scambiano la loro identità con la pubblicità dell’immagine e, così facendo, si producono in quella metamorfosi dell’individuo che non cerca più se stesso, ma la pubblicità che lo costruisce. Per effetto di questa esposizione il pudore non è più  il tracciato di un limite. Per esserci bisogna dunque apparire. E chi non ha nulla da mettere in mostra, non una merce, non un corpo, non un’abilità, non un messaggio, pur di apparire e uscire dall’anonimato mette in mostra la propria interiorità, dove è custodita quella riserva di sensazioni, sentimenti, significati  “propri” che resistono all’omologazione, che, nella nostra società di massa, è ciò a cui il potere tende per una più comoda gestione degli individui.
Il Grande fratello e l’isola dei famosi sono stati creati sostanzialmente per questo.  Eppure queste trasmissioni, che dobbiamo considerare più pornografiche della pornografia propriamente detta, perché denudare la propria anima è peggio che denudare il proprio corpo, si alimentano dei cascami della cultura religiosa che, per quanto laicizzata, ancora si nutre della sua simbologia. E non si fatica a cogliere nell’occhio del grande fratello la trasposizione dell’occhio di Dio.
Il grande fratello e trasmissioni simili offrono a tutti i fruitori della televisione e di internet la possibilità di scrutare l’anima altrui, perché è quella che viene fuori dopo alcuni giorni, quando, disimpegnati da qualsiasi attività, i protagonisti non avranno altro da fare che sfoderare davanti a milioni di spettatori la loro anima nei suoi aspetti  resi patologici dall’inattività.
Il risultato di queste trasmissioni ha un fine politico, perché la pubblicizzazione del privato è l’arma più efficace impiegata nelle  società conformiste per togliere agli individui il loro tratto discreto, singolare, intimo. Allo scopo vengono solitamente impegnati i mezzi di comunicazione che, dalla televisione ai giornali, irrompono con indiscrezione nella parte discreta dell’individuo, per ottenere, non solo attraverso test, questionari, campionature, statistiche, ma anche e soprattutto con intime confessioni, emozioni in diretta, storie d’amore, trivellazioni di vite private, che sia lo stesso individuo a consegnare la sua interiorità, la sua parte più intima, rendendo pubblici i suoi sentimenti, le sue emozioni, secondo quei tracciati di spudoratezza che vengono acclamati  come espressioni di sincerità, perché in fondo: “non si ha nulla da nascondere, nulla di cui vergognarsi”.
Questi tracciati segreti dell’anima, in cui ciascuno dovrebbe riconoscere le radici profonde di se stesso, una volta immessi senza pudore nel circuito della pubblicizzazione, quando non addirittura in quello della pubblicità, non sono più proprietà privata ma comune. E questo sia in ordine alla qualità del vissuto, sia in ordine al modo di viverlo, perché il pudore, prima di una faccenda di mutande che uno può cavarsi o infilarsi quando vuole, è una faccenda d’anima che una volta perso, non esiste semplicemente più.
Quanti sono interessati a che l’individuo non abbia più segreti  e al limite neppure più interiorità alimentano il proliferare di queste trasmissioni che veicolano la persuasione che la spudoratezza è una virtù: la virtù della sincerità. Le istanze del conformismo e dell’omologazione lavorano per portare alla luce ogni segreto, per rendere visibile ciascuno a ciascuno. Di qui la necessità di rivendicare i diritti del pudore per sottrarre l’individuo a quei processi di omologazione in cui ciascuno di noi rischia di perdere il proprio nome.
Il pudore quindi non è una virtù in senso canonico, ma rappresenta  uno stato di allarme, trasmette la percezione di un transito, di un confine, di una linea d'ombra, nel momento stesso in cui si va verso un eccesso.
il pudore è un sentimento ambivalente che oscilla tra la preservazione della propria identità e la paura di aprirsi al mondo dell’altro, paura spesso legata alla sfera sessuale, per cui diventa uno strumento di misurazione dei comportamenti sessuali
(nel romanzo “Il Gattopardo” di G. Tomasi di Lampedusa, il principe Fabrizio di Salina, confida al suo confessore che ha avuto cinque figli, senza aver visto mai sua moglie nuda) che oggi sono vissuti come il residuato di una mentalità arcaica. La cosiddetta rivoluzione sessuale ha messo sotto processo questo sentimento, ritenendolo il maggior responsabile delle più gravi forme di alienazione della vita personale e sociale. Ma questa visione, per quanto storicamente dominante, non corrisponde alla vera natura del pudore, il quale ha il suo significato nella natura stessa dell’uomo e il suo obiettivo nella difesa dell’unicità e irripetibilità della persona, la quale è condizione essenziale per lo sviluppo di autentiche relazioni interpersonali, la cui verità è data dal rispetto della propria e dell’altrui diversità.
Il rifiuto del pudore comporta che l’uomo si riduce a  un prodotto della società. I motivi di questa reificazione vanno rinvenuti nella omologazione culturale indotta dai mass media, come già detto, e dall’uso ideologico delle scienze umane (la pretesa di spiegare, in termini totali, attraverso di esse, l’essere e l’agire dell’uomo).  E’ una nuova forma di obiettivazione che vanifica l’intimità personale e distrugge alla radice la possibilità di comunicazione interumana.
L’incomunicabilità, che caratterizza l’attuale fase sociale, è anche il frutto di questa tendenza. Infatti la comunicazione può realizzarsi solo dove esistono soggetti che hanno una precisa identità e interagiscono tra loro in reciprocità.  In altre parole, dove si attivano dei processi di comprensione, i quali comportano  il rispetto del mondo interiore delle persone, cioè: no alla riduzione del soggetto a oggetto, no alla assolutizzazione del soggetto. Il primo aspetto chiede l’assoluto rispetto della sfera intima del soggetto che non può venire espropriata. Il secondo aspetto chiede la costante apertura all’altro, come condizione essenziale di maturazione della propria autocoscienza e autorealizzazione (non posso realizzarmi se non nella relazione con gli altri). Quindi sono necessari sia il confronto sia lo scambio e ciò comporta “coinvolgimento” e “distanza”. Il “coinvolgimento” fa aprire se stessi all’altro e ci fa accogliere la rivelazione che l’altro ci fa di sé. La “distanza” ci impedisce di violarlo, e di accettarlo per ciò che è, senza volerlo fare simile a noi.
Il pudore è un sentimento che nasce e si sviluppa da questa esigenza: vuole proteggere la propria intimità e l’intimità altrui.
Il pudore nasce dalla consapevolezza che solo dove esistono identità ben definite la relazione si fa autentica, perché la relazione umana è unità nella e della diversità, esclude ogni forma di omologazione (dominio che rende servi) e apre l’orizzonte di un’alterità assoluta.
Il pudore riguarda tutte le relazioni che l’uomo vive. Prima di essere atti concreti è un modo di essere di ciascuno di noi: coscienza di sé e coscienza – rispetto dell’altro.
Per viverlo occorre una radicale autenticità (trasparenza) verso se stessi e insieme una grande disponibilità (accoglienza che mantiene il rispetto della differenza) verso l’altro.
E’ all’interno di questo contesto che vanno inserite le dinamiche dell’affettività, dell’eros, della corporeità.